Sahara Marathon · 24 febbraio 2014
domenica, 16 Marzo 2014 alle 7:00
Tre maratoneti Bruno Sardu di Siamaggiore Aldo Sicurella di Paulilatino e Mariano Littera di Uras raccontano il loro viaggio presso i campi profughi Saharawi.
Dopo tre voli aerei sbarchiamo all’aeroporto di Tinduf in Algeria, sono ormai le due del mattino le operazioni di controllo sono lunghissime, ci attende ancora un altro spostamento di circa 50 km per raggiungere il campo profughi di Smara, un cielo stellato ci dà il benvenuto. Ad accoglierci troviamo Zena una donna Saharawi che parla solo arabo, ci invita a seguirla nella sua umilissima casa in fango, siamo in pieno deserto, il buio ci avvolge e ci affascina.
Da sinistra Aldo Sicurella, Bruno Sardu, Mariano Littera
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È la seconda volta che torniamo in questi posti ma è sempre un’emozione. Ad attenderci c’è tutta la famiglia, ci offrono il the di benvenuto, sono ormai le cinque siamo distrutti, ci distendiamo sul sacco a pelo e cerchiamo di dormire.
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Correre la Sahara Marathon non sarà facile, dice Bruno, la stanchezza si fa sentire e il caldo è sensibile ma è secco, i ristori sono frequenti. Partiamo da El Aaiun una grande baraccopoli che ci accoglie festante, l’avvio puntuale alle 9.30.
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Siamo una cinquantina gli italiani, molti spagnoli, le nazioni rappresentate sono ventisei. Il paesaggio è completamente desertico non un albero solo sassi, sabbia e polvere, a metà percorso attraversiamo Auserd, un altro agglomerato di esiliati. Qui l’accoglienza è spettacolare ed emozionante, i bimbi con la mano fanno il “batti cinque“ e chiedono come ti chiami? Da dove vieni? Rispondiamo Italia…
Italia? Muy bien, bienvenido italiano ci dicono in spagnolo, si parla arabo e spagnolo retaggio di oltre un secolo di colonizzazione iberica. I chilometri passano il paesaggio intorno è di povertà assoluta e allo stesso tempo di grande dignità, le donne nel loro classico costume ci incoraggiano ai bordi della strada, e con i piccoli in braccio ci sorridono, i ragazzini in gruppo ci seguono per centinaia di metri, ti chiedono un gadget, regalo la fascetta tergisudore avrei voluto averne mille per regalare un sorriso a quei bambini. Oltrepassiamo delle dune di sabbia molto impegnative, in lontananza scorgiamo Smara un paese di 50/60 mila persone, ad attendermi al 40° km trovo Had un ragazzino di undici anni, nipote di Zena, che la sera prima mi aveva promesso di aspettarmi lungo la strada, raccolgo le poche energie rimaste e invito Had a seguirmi, è scalzo, il suo viso è sorridente, un po’ intimidito ma lo incoraggio, con il mio spagnolo non eccellente, arriviamo al traguardo a braccia alzate, Had è felicissimo e racconta ai suoi amici la sua corsa con il maratoneta italiano ospite a casa sua.
Finita la maratona abbiamo cercato di immergerci e capire come vive questo popolo, che da quarant’anni è in esilio nel deserto algerino, nel 1975 quando il generale Franco abbandona la colonia spagnola, il Marocco con la Mauritania invadono militarmente il territorio del popolo Saharawi che si affaccia sull’oceano Atlantico di fronte alle Canarie, la superiorità bellica Marocchina e Mauritana è schiacciante i Saharawi vengono scacciati nel deserto, subiscono molte perdite di vite umane, un massacro. Il Marocco erige un muro di 2600 km sorvegliato con centottantamila soldati giorno e notte, e minato con oltre 10 milioni di mine (molte italiane).
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Nella nostra tenda con Aldo intervistiamo Prahim marito di Zena, è senza una gamba, gli chiediamo cosa gli è capitato, ci racconta la sua storia mentre consumiamo la cena, ha perso la gamba nei pressi del muro, nel 1985 è esplosa una mina mentre combatteva con il fronte di liberazione Polisario che si batteva per la libertà del popolo Saharawi. Gli domandiamo: Perché il Marocco vi ha invaso? Le nostre terre sono aride in superficie ma ricche nel sottosuolo, vi sono grandi giacimenti di fosfati (servono per produrre detersivi) c’è del silicio dell’oro e del petrolio, abbondanti introiti arrivano dai grandi pescherecci di tutto il mondo che pagano la concessione di pesca al Marocco, un fiume di danaro insomma. Ora siamo qui da quarant’anni continua Prahim i potenti della terra si sono dimenticati degli Saharawi, viviamo di aiuti umanitari, qui non è possibile coltivare, è una zona inospitale che l’Algeria ci ha concesso, abbiamo qualche capra che non sa cosa mangiare. La montagna di danaro che il Marocco incassa è in grado di comprare l’indifferenza di tanta gente anche dell’ONU che non ha la forza di far rispettare i diritti umani del nostro popolo, si emoziona Prahim quando racconta questa storia, è un omone di 65 anni alto 1,80 in cuor suo non ha perso la speranza di tornare sui territori occupati, ma vuole tornare senza l’uso della forza è un uomo pacifico che spera che le cose si risolvano con il dialogo senza l’uso delle armi. Il giorno seguente noleggiamo un fuoristrada, sbrighiamo una marea di pratiche burocratiche grazie al nostro amico Omar che ha la funzione di console in Italia anche se così non è in quanto l’Italia non ha ancora riconosciuto la Repubblica Democratica Saharawi e partiamo verso il muro marocchino, il viaggio è lungo, ci attendono un centinaio di km nel deserto, scortati da un fuoristrada con dei soldati Saharawi, superiamo tre posti di blocco algerini il nostro autista Alì è un esperto, varie volte è stato in quei posti, ci porta a circa 80/90 metri dal muro, del filo spinato blocca l’accesso, ma soprattutto le mine, ne vediamo una affiorante circondata da pietre per identificarla, siamo un po’ tesi camminiamo dove è calpestato, i soldati marocchini ci osservano con i binocoli, uno spagnolo che viaggia con noi sventola la bandiera Saharawi e canta canzoni di protesta, Alì lo invita a non esagerare, non si sa mai, dopotutto sono armati e noi siamo qui indifesi.
Riprendiamo la strada del ritorno, ripenso a Prahim, alle sue parole, era tutto vero, non lo avevo sognato…
Per saperne di più:
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